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Bienno

Bienno 

Mario   Usuelli

Sabato 19 settembre 2020


Bienno


E' stato verso le sedici che siamo tornati alla fucina che è presso il Museo etnografico del ferro in via degli Artigiani a Bienno. In tarda mattinata quando eravamo già stati lì, non vi era nessun altro visitatore e il signor Davis, artista, fabbro, storico, filosofo, custode del Museo s'è dovuto distogliere da ciò che lo stava impegnando per dare retta a noi. Il solo ingresso costa due euro ma con l'aggiunta di un altro euro si ha diritto alla visita guidata dallo stesso Davis. Ci muoviamo dentro due ambienti piuttosto ampi, con poca luce che entra dalle aperture troppo piccole. Non vi è un pavimento piano poiché il fondo è fatto di terra battuta piuttosto sconnessa. Fate attenzione, dice Davis. Infatti vi sono, in quantità, oggetti di ferro dalla foggia più varia, ammucchiati, appoggiati o appesi quasi dovunque. Vi è, tuttavia, uno spazio riservato agli ospiti, contornato da una fettuccia, dove muoversi agevolmente. C'è, tra gli innumerevoli equipaggiamenti, un forno alimentato a legna, ora non più in uso ma ancora funzionante, che toccava ai bambini far partire la mattina presto. Quello che viene utilizzato attualmente nelle dimostrazioni del lavoro della fucina, utilizza il gas.  Il maglio è il macchinario più grande tra quelli presenti nell'officina. E' una sorta di enorme martello, dal manico di legno e la testa di ferro come dev'essere. A muovere tutto è l'energia dell'acqua che scorre nel Vaso Re un canale artificiale la cui prima impronta è dovuta ai monaci Benedettini che nel l'Ottavo secolo deviarono parte del flusso del fiume Grigna. Segherie, lavatoi, coltivi, mulini e fucine poste nei comuni della vallata toccati dal canale, ne hanno tratto profitto per secoli. L'edificio nel quale ci muoviamo risale almeno all'anno 1.400 La lavorazione del ferro in questa zona veniva effettuata già nell'antichità data la coincidenza di tutte le risorse indispensabili per poterlo fare: la forza dell'acqua, il calore della legna, il minerale di ferro. Ovviamente messe in opera dall'ingegno e dal lavoro di chi qui viveva. Nel tempo, le modalità di lavorazione e l'organizzazione sociale che le consentiva sono mutate parecchio. Se si guarda agli anni che precedono le innovazioni apportate dalla rivoluzione industriale, tecnologica e capitalista, della seconda metà dell'Ottocento, il periodo di maggiore vigore delle attività basate sul ferro, fu quello del dominio di Venezia. Qui l'attività estrattiva, il trattamento e il trasporto dei minerali, la regolazione delle acque, la conduzione dei boschi e il lavoro nelle fucine vennero ordinate in un sistema coerente ed efficiente. Non per nulla. Il nostro interlocutore ci mostra un disco di metallo piuttosto sottile dai bordi un poco sfrangiati. Quello è sia il risultato di molte manipolazioni che la base di partenza per altre. Fuso, battuto e rifuso più volte, tanto che da un blocchetto di ghisa siano state tolte buona parte delle scorie e molto carbonio. Ora è ferro, di buona purezza, e ben malleabile. Da quel disco si potrebbe ricavare una pentola ma anche un elmo o, a sagomarlo bene, anche parti di una corazza. Ci vengono mostrate una punta di lancia e una vanga: la struttura e gran parte della forma sono le stesse, ambedue vanno fissate ad un'asta o a un manico. Ma prima che si affermassero le armi da fuoco, la prima si sarebbe potuta vendere ad un prezzo assai superiore rispetto alla seconda. Tuttavia a un certo punto tante lance non occorrevano più quando la polvere da sparo ha mutato le tipologie degli armamenti. Del resto anche la richiesta di pentole e di secchi si è quasi annullata, negli anni Sessanta del secolo scorso, con l'avvento dei contenitori di plastica. Nei decenni successivi sono sopravvissute solo le fucine che riuscirono a specializzarsi nella produzione di utensili per l'agricoltura. Ora non sono più attive nemmeno quelle. La produzione di carattere industriale, insediata in pianura si è presa tutto.

"Battere il ferro finché è caldo" è un'espressione comune che qui trova la sua origine e spiegazione. E' il colore che indica la temperatura: bianco, giallo, rosso, a scendere. Poi bisogna rimettere il pezzo nel forno perché, raffreddandosi, non risponde più ai colpi del martello, della mazza o del maglio. Con la tempera, che consiste nel raffreddamento rapido del ferro incandescente immergendolo nell'acqua o, per risultare meno brusca, nell'olio, si ottiene l'indurimento del metallo. In questa operazione sono state raggiunte vette di raffinatezza assolute. Chi ci accompagna spiega che di un martello, che ci mostra ad esempio, va temprata solo la parte battente che diverrà più dura ma sarà anche più fragile. La parte restante dell'utensile, non temprata manterrà la propria resilienza ovvero la capacità di assorbire i colpi.  Si dice che la superiorità delle spade costruite a Damasco, famose in età medievale, derivasse dalla loro tempra differenziata per cui la parte tagliente, durissima, veniva retta da un supporto a strati via via più morbido tale da reggere i colpi subiti nello scontro con le armi dei nemici. A Schilpario, non molto distante da Bienno, è possibile visitare una delle molte miniere da dove veniva estratta la siderite, cioè il carbonato di ferro, la quale, dopo avere subito un primo processo di cottura che la riduceva a ghisa, era inviata, per le successive lavorazioni alle fucine della valle del torrente Grigna ove è posto anche Bienno. Sono circa le 11 quando usciamo dal museo fucina, quindi abbiamo tempo per visitare Bienno. Se il borgo si è costituito negli anni secondo le necessità, le tecniche, le regole dei tempi, l'aspetto del centro del paese attuale è il risultato di un progetto unitario, recente, inteso a dargli valore quale località caratterizzata dalla cultura del ferro e dell'acqua. Del resto fino, alla metà del Ventesimo secolo, qui erano attive almeno centocinquanta famiglie di fabbri. Le fontanelle frequentissime, sono tutte diverse tra loro; schiere di pinze da fonderia sono poste a mo' di monumenti e monumenti veri e propri, fatti, come par giusto, di ferro, sono collocati in ogni dove. Risaltano, tra i molti, il monumento al fabbro che lavora all'incudine, quello dedicato all' alpino col mulo e a un soldato caduto (amico o nemico?) e un cervo, in grandezza naturale, formato col fil di ferro. Durante la nostra visita incontriamo pochissime persone per le strade. Molti invece sono i fiori posti a decorare le case. Tanti i bei negozi, come è bella la pasticceria dove facciamo acquisti. Anche botteghe piuttosto particolari vi si trovano, come quella che propone manufatti calligrafici, delle quali non si capisce quanti clienti possano avere. Visitiamo, di seguito: il mulino museo, alimentato dall'acqua del Vaso Re come ci si può aspettare, il quale funziona tutt'ora e vende al dettaglio la farina che produce; la collezione Castelnovi di utensili, ormai desueti, artigianali, forestali e contadini; la chiesa cattedrale, dedicata ai santi Faustino e Giovita dal grande organo dei fratelli Antegnati, i dipinti di Fiamminghino e le cancellate dei maestri fabbri biennesi; la chiesa di Santa Maria, molto più interessante della precedente, dove risalta un affresco con una danza macabra davvero particolare.

L'indicazione di un punto di ristoro ci convince a salire sulla collina del Cristo Re. Ma troviamo un parco piuttosto squallido, il paesaggio nella foschia e nulla da mangiare. Torniamo a Bienno dove ci fermiamo presso il ristorante "Vecchio mulino". Lì vi sono dei tavoli adeguatamente distanziati ben disposti sul terrazzo; non ci sono rumori artificiali a recare disturbo alla conversazione; il servizio è ottimo e i casoncelli alla camuna, come le altre vivande che assaggiamo del resto, sono proprio buoni. Spendiamo, in tre, € 62,00. Stavolta presso il Museo etnografico del ferro ci sono almeno trenta persone che aspettano di vedere la dimostrazione a fuoco. Oltre a Davis, che abbiamo conosciuto la mattina, quattro uomini, non più giovani ma con il piglio deciso che si conviene dovendo manovrare macchinari arcaici e tuttavia potenti, sono impegnati in non so che intervento presso la grande ruota che è fissata al muro esterno all'officina. Sono attrezzati con pesanti mazze, cunei di legno da mezzo metro, un secchio di lubrificante solido. Dal canale Vaso Re, che corre all'altezza della gronda del tetto, fin che non avranno terminato il lavoro, non verrà cavata acqua. Quando, concluso il loro trafficare, viene aperta la saracinesca la rotazione della rotante è velocissima. Un albero enorme, costituito da un fascio di tronchi tra loro serrati, trasmette il movimento alle macchine all'interno. Tutti questi uomini devono avere lavorato lì (o in quel settore lì) negli anni addietro, quando quelle officine erano attive e producevano manufatti e ricchezza. Ho questa impressione perché trovo che si muovano sicuri. Vediamo prelevare dal forno una barra di ferro incandescente e sorreggerla con pinze dal manico lungo come ne abbiamo viste esposte nelle strade del paese. Adesso occorre muoverla sotto i colpi rapidi e possenti del maglio. Uno degli addetti si siede al posto che un tempo era quello dell'apprendista a fare assistenza all'operatore specializzato. Un altro è incaricato di reggere la sicura ovvero la barra che ferma immediatamente, tirandola, il movimento del gran martello. Chi regge il ferro da lavorare lo muove coordinandosi col movimento alternato del maglio. Trema il pavimento, vibrano i muri. E' un lavoro pesante e pericoloso: è facile scottarsi, bruciarsi, rompersi le ossa. Diventare sordi, dopo un poco, è certo. Questa cui assistiamo è solo una dimostrazione ma c'è stato chi l'ha fatto, questo lavoro, per dieci ore al giorno, per tutta la vita.


Mario Usuelli

   

Oltre a me hanno partecipato alla gita Carmen Corti e Clementina Fumagalli.


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