Gleno
Giovedì 6 Aprile
Gleno
Non è impegno lungo né difficile andare sù alla diga del Gleno. Si lasca l'auto nella graziosissima piazzetta della località Pianezza, frazione di Vilminore di Scalve e si imbocca, presso la fontana di un lavatoio dall'acqua buonissima che meglio si apprezza al ritorno dall'escursione, il sentiero 411 che si inoltra bello bello nei prati.
Al limitare del bosco un tabellone, posto lì dall'ente che gestisce il parco delle Orobie bergamasche, elenca le date salienti della vicenda che ha riguardato la diga. Oltre alla lista, in fondo, è riportata anche una sconsolata considerazione del giornalista dell'Eco di Bergamo il quale, nel 1973 a cinquant'anni dal disastro, scrisse su quel giornale che inchieste e processi non apportarono né riconoscimento né giustizia per coloro che subirono i danni del disastro e che come testimone di ciò che avvenne rimane solamente un rudere abbandonato in una valle secondaria delle Prealpi.
Quando si infila nel bosco, lo stesso sentiero, largo, un poco sassoso, molto frequentato, aumenta di parecchio la pendenza. Sicché o si rallenta il passo o, se lo si vuole mantenere rapido come nel tratto precedente, si fa una sudata da sgocciolare come è successo a noi. La giornata è calda e umida, la Presolana e il pizzo Petto hanno la vetta circondata da vapori. Scavalcata una condotta forzata si giunge, con pochi passi, al manufatto di cemento dal quale il grosso tubo ha origine. Ora siamo a quota 1.503. Da qui il percorso è praticamente tutto perfettamente in piano. Andiamo per un viottolo, a tratti scavato, a tratti costruito, che taglia la parete che forma, insieme a quella di fronte, una gola che si restringe man mano. Il bordo è tutto protetto da ringhiere di fili metallici pressoché continue.
I ruderi della diga si vedono presto: sono più grandi di come li immaginassi. Dello sbarramento, di come fu per poco, restano un tratto sulla destra orografica, che sarà circa un terzo dell'insieme, e uno sperone dalla parte opposta. Il placido, limpido, lago di adesso è trattenuto da una bassa barriera di cemento che si attraversa mediante una passerella stabile. C'è un monumento, nel tratto lasciato vuoto dal crollo, che porta una targa con la data di quello. Dirimpetto una bella bacheca mostra fotografie storiche che riguardano le opere della diga. Oltre, alzandosi di poco seguendo un solco nel prato, si giunge a una baracca di legno che ospita un bar. Da lì, insieme al mio compagno di escursione, con una lattina di birra in mano, contemplo un notevole monumento all'insipienza, cioè alla totale mancanza di responsabilità intellettuale e morale, degli umani. Di taluni, almeno, quelli che comandano.
Leggere delle travagliate vicende che caratterizzarono i lavori di costruzione, che durarono dal 1916 al 1923, fa venire i brividi.
Migrazione delle concessioni di sfruttamento idroelettrico delle acque dei torrenti che confluiscono nella valle del Gleno da un'impresa all'altra; appalti e subappalti molteplici a vari capomastri interessati a trarre profitto dall'esecuzione dei lavori; inizio dei lavori prima che il Genio civile approvasse il progetto; utilizzazione di materiali inadatti alla bisogna, scadenti o in maniera non appropriata; mancanza di controlli, collaudi e verifiche. Incoscienza e incompetenza in pari grado. Letali furono i cambiamenti del progetto in corso d'opera. Quando si incominciò, l'intento era quello di costruire una diga a gravità ovvero un sbarramento relativamente basso che avrebbe contenuto la spinta dell'acqua del lago che si sarebbe formato, col proprio peso. Ad un certo punto qualcuno decise di modificare radicalmente la conformazione della barriera che si andava erigendo. Una diga ad archi multipli avrebbe consentito di accumulare una riserva d'acqua assai maggiore di quanto sarebbe stato possibile realizzando il progetto iniziale. Le due tipologie di manufatto sono concettualmente del tutto differenti. Se una diga a gravità, fatta sostanzialmente di terra e sassi opportunamente accumulati, si regge da sé, una diga ad archi multipli di calcestruzzo presuppone un tenace aggancio alle pareti della valle che chiude e una forte presa sulla propria base. Struttura relativamente leggera - rispetto sia alla diga a gravità che al peso delle acque che deve contenere - una diga in calcestruzzo deve trasmettere la spinta cui si oppone, ai suoi appoggi.
L'anno scorso ho visitato la diga del Vajont. Essa fu costruita con una sorta di composizione di cunei di calcestruzzo che, insieme, formano una struttura fortemente arcuata che si appoggia ad una roccia solidissima. La diga del Vajont, che è molto alta ed è inserita in un punto dove la valle è stretta, è tutt'ora intatta. La gigantesca onda, provocata dalla frana del monte Toc del 9 ottobre 1963, l'ha sorpassata ma non l'ha nemmeno scalfita.
La diga del Gleno, invece, lunga 270 metri e alta 75, non è stata fatta arcuata ma diritta. E' costituita, a monte, da una sorta di colonnato di calcestruzzo stretto in una formazione ordinata come una schiera, sorretto, a valle, da pilastri e contrafforti corrispettivi.
Essa crollò il 1° dicembre 1923 quando ancora non era stata completata del tutto. Una commissione d'inchiesta appurò, tra le molte irregolarità, che le pareti che costituiscono i fianchi della valle sono fatte di materiale friabile e che le arcate della parte centrale della diga non furono fissate nella roccia ma erano state appoggiate al materiale apprestato per la costruzione della diga a gravità. E' possibile che lo sbarramento sia stato, dall'acqua, scalzato da sotto, nella parte di mezzo. Resse, tuttavia, sui fianchi ma fu inutile.
Nessuno ha potuto contare con precisione i morti provocati dalla valanga d'acqua, fango, tronchi e detriti. Furono forse 400. Nè fu fatto un inventario di case, strade, ponti, strutture quali centrali elettriche e fabbriche, insediamenti agricoli, campi coltivati e boschi, paesi interi distrutti lungo la direttrice che porta fin giù al lago d'Iseo. Lungo la strada statale 294 si possono osservare, ancora oggi, alcune delle cappelle erette per fermare la memoria dell'evento.
Partiti alle 9,40 da Pianezza, che è posta a 1.267 metri di altitudine, siamo arrivati alla diga, che è a 1.534 metri, alle 10,45; quindi per superare un dislivello di 265 metri e percorrere l'intero sentiero, abbiamo impiegato 65 minuti. Per scendere abbiamo avuto bisogno di poco meno di un'ora. Prima di riprendere l'auto, alle 11 e trenta, l'acqua della fontana di Pianezza ci ha tolto il sudore dalla faccia e la sete dalla gola.
Per uno spuntino ci siamo fermati presso il "Ristorante del passo" quello della Presolana si intende. Molto buoni i salumi serviti sul tagliere. Poi pane, birra e caffè per 23 euro in due. Molti i ciclisti in sosta. Tra loro anche uno famoso, cioè conosciuto da tutti gli astanti, sia dai gestori del locale, come da un gruppo di ciclisti svizzeri tedeschi, che dall'amico Innocente ma non da me che non seguo le vicende sportive. La celebrità non è mai universale. Eppure Paolo Savoldelli ha vinto un paio di volte il giro d'Italia ed ora, mi dicono sia un apprezzato commentatore televisivo di cose sportive. Pare che fosse molto bravo nelle discese. Un coraggioso. Prima di muovere con lui, in bicicletta ovviamente, verso Clusone, la giovane signora che l'accompagna gli porge un gesto d'affetto tale da suscitare l'apprezzamento - e un poco d'onesta invidia - da parte di chi l'ha osservato.
Siamo a casa alle 15,20.
Mario Usuelli.