Mario
Giovedì 13 luglio 2023
Ad alcuni corrispondenti trasmetto appunti e considerazioni
riguardanti una gita al rifugio Buzzoni del 21 giugno 2014.
Saluti. Mario Usuelli.
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Martedì 24 giugno 2014
Mario
Giunti al passo del Gandazzo a quota 1651 - quello che una vecchia cartina Compass indica come bocchetta Muta - abbiamo dovuto decidere se proseguire verso il rifugio Grassi, come avevamo progettato inizialmente, o deviare verso il Buzzoni. Partiti alle 9,25 dalla stazione superiore della funivia dei Piani di Bobbio, siamo giunti fin lì, in poco più di un'ora, percorrendo un sentiero largo, pulitissimo, privo di sbalzi. Il seguito del medesimo sentiero lo si vede risalire in direzione del Grassi, divenuto ora erto, su di una costa erbosa, con la sua forma di treccia allentata, come si addice ai percorsi molto usati. Esso porta verso il passo del Toro che però non si vede, dato che la nebbia copre la parte alta del monte. Si stimano almeno altre due ore di cammino.
Il cartello che invita ad andare al Buzzoni è anomalo e non è veritiero. Più grande di quelli collocati dal Cai, e di legno invece che di metallo, indica il rifugio a cinque minuti. Pierluigi e Carmen non hanno dubbi. A Giovanni non piace infilarsi nelle nuvole; Corrado, Michela ed io ci adeguiamo senza difficoltà. Al Buzzoni, che è collocato almeno 150 metri più in basso del bivio, arriviamo alle 10,50. Dato che il pranzo sarà disponibile dopo le 12,30 propongo alla compagnia di recarci a vedere i faggi giganti. Si tratta di proseguire in direzione di Introbio, che è più di mille metri giù in basso, seguendo il fianco del vallone scavato dal torrente Acquaduro, fino all'alpe Tèe.
Qui il sentiero è ripido e contorto, stretto e rotto, traversa tratti di frana e pendii irti di sassi e di cespugli radi. Poi si attenua, restando minuscolo anche se ben marcato, si insinua tra faggi che non lasciano crescere altri che sé stessi. Ancora non ci siamo ma manca poco, ci informano gli ardimentosi che risalgono il vallone. L'Alpe è uno slargo evidente dove la pendenza è di molto attenuata. Ma è ingombra di erbe alte e felci che sono tossiche per le mucche oltre che per gli umani. Quando ci passai, quattro anni fa, c'era ancora un prato buono per il pascolo. I faggi, qui, sono davvero grandi. Il maggiore spicca magnifico al bordo della radura. Oltre, il terreno scende a precipizio. Solo a cercarla si nota una traccia zigzagante sullo spesso cuscino di foglie alla base della faggeta: faticosissima da risalire, pericolosa da scendere. Ci divertiamo a scattare fotografie da tutte le posizioni, a noi e all'albero. Poi qualcuno di noi si accorge che alla base del gran tronco c'è una specie di targa, un cartello neanche tanto grande, dove è raccontata la storia di Mario che preferiva la montagna, il pascolo, il bosco, le mucche e gli altri animali alla gente di Introbio, il suo paese. Quando una frana lo travolse gli apparve lo spirito del bosco che, per evitare che morisse, lo trasformò in un albero, un faggio, per consentirgli di vivere nei luoghi che aveva sempre rispettato e amato.
Mario è diventato albero, l'albero Mario. Al di là del nome, probabilmente inventato lì per lì da chi ha steso il testo, mi viene da immaginare che anche gli altri grandi faggi radunati nei dintorni siano la forma data per consentire ai valligiani di espandere per secoli la loro vita. Chi lo sa? Un patto di sopravvivenza tra lo spirito dei boschi e gli abitanti di questi, umani o vegetali. Un assembramento di essenze secolari in un luogo ben nascosto, molto difficile da raggiungere anche d'estate e solo a piedi.
In un primo momento resto perplesso, poi, finalmente, comprendo: l'alpe Tèe è un 'pagus', un villaggio mai convertito al cristianesimo, religione nei primi secoli insediata solo nelle città che con serie difficoltà venne imposta agli abitanti delle campagne, i pagani appunto. Se questi alberi sono vecchi di sette, ottocento anni e oltre, i tempi coincidono con quelli dei quali scrive, ad esempio, il professore Franco Cardini in "Cristiani perseguitati e persecutori" (Salerno Editrice 2011) quando narra della resistenza opposta dalle genti alle deità e ai riti provenienti da un'altra cultura e che volevano conservare quelli della propria. Era il periodo in cui le nuove credenze sostenute dal potere imperiale si affermavano - anche - con l'interramento delle fonti sacre, lo sterminio degli orsi, la distruzione dei boschi di alberi sacri agli dei antichi come diffusamente spiega Michel Pastoureau ( 'L'orso' Einaudi 2008 )
Il rifugio è davvero piccolino. L'assito esterno, proteso sulla valle, ha posto per pochi tavoli, all'interno ce ne sono solo alcuni in più. C'è scelta: risotto, pizzoccheri, brasato, polenta, formaggi, salumi, birra. Alcuni prendono anche la torta Grigna, con le mandorle, quasi a compensare il fatto che la foschia impedisce la visione della montagna dallo stesso nome che è proprio lì di fronte. I gestori tutti giovani, sono almeno in tre. La conversazione, alla quale partecipano tutti i presenti anche se facenti parte di gruppi diversi, ad un certo momento converge su Monza, la sua storia, le sue specificità. Una signora che si è da poco trasferita in quella città, si mostra particolarmente curiosa. Giovanni, che vi è nato e che di Monza conosce ogni dettaglio, non poteva immaginare un'occasione migliore per esporre la sua erudizione in materia, in un luogo straordinario, a un uditorio attento e interessato. Ne viene uno di quei momenti magici che si posano, per restarci, nella memoria di chi c'era. Lasciamo il rifugio alle 14,35
Al passo del Gandazzo troviamo delle persone sedute a prendere il sole. Si vedono scendere dal sentiero, non più tra le nuvole, che viene dalla capanna Grassi parecchi escursionisti. Un gitante dice che non si mangia più tanto bene alla Grassi da quando lo sperimentato gestore l'ha lasciato per prendere servizio al rifugio Tavecchia. Un posto buono, nei dintorni, per mangiare bene, aggiunge, è il rifugio Lecco. Riguardo al Buzzoni dice solo che è stato allargato ben bene il sentiero che ci arriva dopo l'incidente occorso ad Antonio il vecchio rifugista. Questo Antonio Mariani l'ho conosciuto quando, saliti da Introbio con Innocente e altri, ci fermammo al Buzzoni a mangiare il risotto che aveva preparato lui. Era da solo. Poi noi scendemmo seguendo il sentiero segnato per un gran tratto, ma commettemmo un notevole errore quando ci infilammo in una variante molto esposta che mi mise in seria difficoltà. Credo che l'aiuto che allora mi diede Innocente sia stato decisivo per consentirmi di uscire sano dall'impaccio.
Invece Antonio Mariani da Paderno Dugnano, quella volta, uscì dal rifugio da solo con le ciaspole e la pala per aprire un passaggio nella neve. Era sabato 6 febbraio 2010 e la valanga lo ricoprì con uno spessore di oltre cinque metri. Non indossava nemmeno l'ARVA, l'apparecchio per le segnalazioni di sicurezza, sicché fu dissepolto solo quattro giorni dopo la disgrazia.
Il rifugio Buzzoni venne costruito dalla gente di Introbio circa 35 anni fa portando sù tutti i materiali occorrenti caricandoli sulle spalle. Venne intitolato a Giuseppe Buzzoni, uno del paese bravo nello sci di fondo, che morì, ventenne, in un incidente sul lavoro.
Antonio Mariani, che aveva perso il suo lavoro di perito chimico in un'industria, accettò nel 2006 di riaprire il rifugio che era chiuso già da tre anni per mancanza di un gestore.
Sono certo che sulla montagna di Valsassina, molto vicino al rifugio Buzzoni, adesso, sta crescendo un albero che è Antonio.
Come detto, il tratto che dalla bocchetta conduce ai Piani è comodo e tranquillo quasi fosse il vialetto tra gli alberi di un parco urbano però con la veduta verso la quasi disabitata Valtorta. Questo passaggio si pone come una sorta di camera di compensazione tra l'orrido, selvaggio ( e pagano ! ) vallone del torrente Acquaduro e il civilizzato, urbanizzato ( e convertito ) altopiano di Bobbio. Ciascun ambiente è l'opposto dell'altro, pur essendo essi vicinissimi. Da una parte un villaggio i cui abitanti sono gli alberi sacri che sostengono la volta del cielo e devono preservare la cultura della civiltà arcaica più antica e profonda. Dall'altra banali alberghi, ruspe, cappelle, cartelli, piste, insegne, fili, recinti, biglietti, pali, casette, statue, negozi, motoslitte, sciovie, lampioni, ristoranti, campeggi, automobili... Tutte cose inadatte ad affrontare il tempo di lunga durata.
Alle 16,35 riprendiamo le nostre auto. Partiti da Vimercate alle 7,30 siamo di ritorno poco prima delle 18 di sabato 21 giugno 2014.
Mario Usuelli