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Sacromonte

SACROMONTE

Mario   Usuelli

Sabato 19 ottobre 2024


Sacromonte


La Biblioteca di Busnago, da qualche tempo, propone delle gite brevi che si svolgono di sabato pomeriggio. Il tempo a disposizione tra la partenza, che avviene precisa alle 13, e il ritorno, che sarà circa alle 19, determina la distanza e le caratteristiche della meta. Non è una grave limitazione se la scelta è accurata. I punti o luoghi di interesse, raggiungibili con un viaggio in autobus di un'ora o un'ora e mezza, avendo poi a disposizione tra le tre e le quattro ore per la visita, sono innumerevoli.  Così, con una comitiva formata da venticinque o trenta persone, sono andato a vedere prima il Cenacolo vinciano, poi il Binario 21 presso la Stazione centrale a Milano.  Il mese passato sono stato a Vigevano, oggi al Sacro Monte di Varese.
La giornata bigia e piovosa ha fatto sì che trovassimo il parcheggio principale praticamente deserto; la nuvolaglia, compatta e alta, non nascondeva i laghi e gli insediamenti urbani nella piana sottostante, né i monti in direzione della Svizzera. Sono le 14,35. L'altimetro segna 820 metri di quota, siamo quindi quasi al culmine dell'altura lungo le cui pendici si sviluppa il Sacro Monte di Varese con le sue quindici cappelle. Oggi visiteremo solo l'ultima, quella al culmine, il Santuario, restando inteso che mi riprometto di tornare qui per considerare tutte le altre. 
Ci guida una signora di nome Marina che si dimostra subito perfettamente adeguata al compito di condurre il nostro gruppo composto da 23 persone non giovanissime, in netta prevalenza donne. 
Il viottolo che aggira la collina conduce alla frazione Santa Maria del Monte che conta, forse, ottanta abitanti parte dei quali sono Romite Ambrosiane, monache claustrali insediate in un vasto convento alcune propaggini del quale incombono sulla chiesa sommitale: il Santuario.
Su un cocuzzolo di fronte, sul punto più alto del Parco Campo dei Fiori, spicca una costruzione irta di antenne. Quello fu un albergo alla moda, disegnato dall'architetto liberty Giuseppe Sommaruga ai tempi della sua notorietà, lo si raggiungeva da Milano in appena un'ora e mezza coi mezzi pubblici. Venne chiuso, nel 1954, insieme alla funicolare che consentiva di arrivare fino lassù. Di questa sono rimasti i ruderi della stazione a monte. Poco distante, ma da qui non si vede, vi è l'Osservatorio astronomico che fornisce le previsioni meteorologiche per tutta la Lombardia.
L'interno del Santuario è stracarico di decorazioni, stratificate, fastose, eccessive, che nello sguardo d'insieme tendono a fondersi indistinte tanto che il valore, il senso, la motivazione di ciascun oggetto si può perdere.
E' l'esito, questo, di un luogo di culto organizzato di lunga durata. Infatti la chiesa attuale, dedicata a Santa Maria del Monte, è sovrapposta alla primitiva chiesa dell'anno Mille i cui resti sono ancora osservabili nella cripta. 
Il nostro non è un pellegrinaggio ma una visita di carattere culturale: l'esperta accompagnatrice del nostro gruppo lo sa. Sceglie opportunamente, tra le molte possibilità, i punti dove indirizzare l'attenzione.
Dopo un rapido accenno alle vicende della chiesa nella quale ci troviamo, conduce gli sguardi su un quadro che rappresenta la fantastica battaglia vinta, con l'aiuto di Maria, da Sant'Ambrogio contro gli Ariani i quali si sarebbero uccisi tra di loro. Un episodio dal quale si fa derivare la sacralità di questa altura. 
Accanto alle reliquie di don Gnocchi, vi è un'urna piena di terra di Nikolaevka. Lui, è Carlo Gnocchi, (1902 - 1956) che partecipò, da cappellano militare dell'esercito italiano, alla Campagna di Russia durante la Seconda guerra mondiale. Nikolaevka è la località dove, il 26 gennaio 1943, avvenne lo scontro che consentì di rompere l'accerchiamento, effettuato dai Russi, dei soldati Italiani, Tedeschi e Rumeni, invasori sconfitti e in ritirata dal fronte del Don.
Santo per la Chiesa cattolica, anche per meriti acquisiti successivamente all'esperienza bellica, don Gnocchi è eroe di guerra per gli Alpini italiani.

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Mi chiamo Mario perché questo era il nome del fratello di mio padre. Mandato a fare la guerra come artigliere in Russia, non tornò più. Disperso. Non sì è mai saputo né dove né quando. Sembra che abbia mandato un'ultima lettera alla zia Letizia su finire del 1942. Lettera che io non ho mai veduta, né so se ce ne siano state delle altre. Come in moltissimi casi simili, in famiglia si sperò per un pezzo che fosse stato preso prigioniero e che potesse tornare. Di lui non abbiamo che poche fotografie. Il suo nome è compreso nell'elenco dei caduti scritto malamente sul monumento che all'origine era collocato in mezzo alla piazza del nostro paese. Qualche anno fa, con l'ultima sistemazione della stessa piazza, il cippo eretto in memoria dei morti in guerra, è stato spostato in un angolino.
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Mi stacco un poco per esplorare da solo questo luogo tanto particolare. Non vi sono molte persone, i confessionali però sono attivi. Giro intorno all'altare maggiore per osservare gli scranni del coro dai begli intarsi. La grata che nasconde le suore che accedono alla chiesa, è posta in alto, all'altezza dell'organo.  Un'altra è nella cappella riservata alle fondatrici delle Romite ambrosiane dell'Ordine di Sant'Ambrogio.  I resti delle due monache sono là distesi, vestiti dell'abito regolamentare, il volto di cera. Sulla parete, collocati in bell'ordine, vi sono diversi elaborati reliquiari di quelli che una volta - o si usa ancora? - venivano posti alla venerazione diretta dei fedeli.
Sul piazzale vendono cartocci di caldarroste buonissime. 
Una targa ricorda la visita di Josemaria Escrivà de Balaguer, dichiarato santo ma, tuttora, piuttosto discusso, non solo e non tanto per il ruolo che svolge l'"Opus Dei" l'organizzazione ecclesiale che fondò e diresse finché visse, quanto per la condotta individuale.
Di Floriano Bodini è la grande statua raffigurante Paolo VI dai vasti paramenti rappresentati come fossero agitati dal vento e dalle mani dalle dimensioni spropositate che nell'interpretazione corrente indicherebbero l'accoglienza della Chiesa ma che non possono non richiamare le mani pesanti di molti preti di oratori brianzoli ai tempi in cui lo stesso Giovanni Battista Montini fu cardinale di Milano.
Basta scendere per un breve tratto il largo viale acciottolato che collega le cappelle per giungere all'ingresso della casa museo di Lodovico Pogliaghi (1857-1950). Siamo lì alle ore 16,30.
La tradizionale, rinascimentale, Wunderkammer, la stanza delle meraviglie dove i viaggiatori ricchi esibivano gli oggetti riportati dal loro girovagare nei paesi esotici, qui è diventata quella che potrebbe chiamarsi Haus der Wunder, la casa delle meraviglie, essa stessa meraviglia, dedicata all'arte più che ad oggetti bizzarri, allestita non da un viaggiatore ma un compratore attento, sistematico e selettivo, egli stesso artefice e costruttore.
Non semplice collezionista di bizzarrie e antichità, quindi, ma autore, diretto, in prima persona, anche di interventi nella decorazione della casa lasciata, tuttavia, incompiuta e in divenire. 
Come nei musei modernamente organizzati, gli oggetti qui sono ben disposti, illuminati, distinti tra di essi, quindi tutti fruibili dai visitatori. Probabilmente la collezione ne comprende altri, ma conservati in un deposito separato, pronti per un'eventuale successiva esposizione. 
Si avverte presto come l'intera casa, corredata di tutti gli oggetti e delle opere acquisite così come delle minori di lui, siano funzionali alla esibizione e celebrazione, della maggiore impresa di Lodovico Pogliaghi: la porta centrale che realizzò per il duomo di Milano della quale c'è, qui, il modello in gesso.
Infatti, dopo avere potuto osservare antichità egizie, greche, latine, cineserie e altre preziosità orientali e africane, il visitatore accede alla vasta stanza interamente dedicata alla grande porta del duomo.
Si può intuire, allora, come Pogliaghi abbia portato avanti, a casa sua, un progetto lungimirante che avrebbe dovuto, come è effettivamente avvenuto, oltrepassare la vita terrena del medesimo per avere una continuità.
Direi che abbia unito la gratificazione, attuale, personale, del collezionista di alto livello culturale ed economico, insieme a quella derivata dalla predisposizione della fruizione futura della sua raccolta che porta in sé, necessariamente, la memoria della sua personalità.
Di fatto, oggi, dopo che con un lascito testamentario la casa museo è diventata proprietà della Pinacoteca Ambrosiana essa è diventata una sorta di sezione staccata del vicino Santuario.
In questa maniera sia la casa, con la collezione privata che contiene, sia le opere commissionate da enti pubblici o da altre istituzioni allo stesso Pogliaghi, hanno potuto convergere e consentire una fruizione unitaria quale bene collettivo. Come quella, nostra, di oggi.
Lasciamo la casa museo di Lodovico Pogliaghi alle 17,35.
Veniamo via dal Sacro Monte, con l'autobus, alle 17,50.
Siamo a casa alle 19,30.

Mario Usuelli.

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